È da un po’ che rifletto sui programmi che promuovono l’ingresso delle donne nelle discipline STEM, soprattutto quelli che si concentrano sullo sviluppo di competenze in programmazione e progettazione digitale.
Sono sicuramente iniziative importanti: apprezzo l’impatto concreto che possono avere in termini di agentività nella tecnica digitale, parità salariale e opportunità. Però mi viene un dubbio scivoloso: non è che questi programmi, così come sono strutturati oggi, ma soprattutto per come è pensata la tecnica, rischino di indirizzare le nuove professioniste verso la replica di modelli già esistenti, e non siano una spinta evolutiva? Insomma, il pericolo è che si perpetui una tecnica “maschile” per impostazione, una monocultura costruita su secoli di dominio maschile nel mondo della tecnica.
Una tecnica “maschile”: è un concetto valido?
Dire che l’informatica contemporanea è una tecnica “maschile” solo perché è praticata prevalentemente da uomini rischia di semplificare un problema complesso. Non è solo una questione di numeri: è il modo in cui le competenze informatiche sono state costruite, rappresentate e legittimate socialmente che ha creato un ambiente mascolinizzato. Con la Rivoluzione Industriale, le competenze tecniche furono associate a capacità come la razionalità e il controllo, considerate “naturali” per gli uomini. Si tratta però di un risultato di costruzione sociale, in cui alcuni saperi sono stati valorizzati e altri marginalizzati.
Questa dinamica si è poi estesa al settore dell’informatica, dove la cultura del “genio solitario” e del programmatore “hardcore” ha contribuito a creare un’identità tecnica basata su un immaginario maschile. Ma questa struttura, una sorta di mascolinizzazione dell’informatica, non è inevitabile: è un prodotto culturale che riflette i valori e le gerarchie sociali della società in cui è nato.
E la tecnica non è mai neutrale: chi partecipa alla sua costruzione, chi la definisce e chi la valuta plasma la sua identità culturale. L’informatica di oggi non è maschile perché gli uomini la praticano, ma perché è stata definita su modelli culturali e valori che privilegiano uno stile di lavoro e di conoscenza costruito storicamente per escludere altri approcci. Il problema, quindi, non è solo chi entra nei team tecnici, ma come l’informatica viene insegnata, sviluppata e definita.
Cosa può cambiare se il femminile ridefinisce il paradigma?
Ma come potrebbe cambiare la situazione se a questi spazi fosse permesso di incorporare una tecnodiversità in modo più radicale? La domanda non è cosa le donne possano “aggiungere”, ma piuttosto quali nuove possibilità emergeranno se si ridefinisce la progettazione attraverso punti di vista che sono stati finora marginalizzati.
Questo significa interrogarsi su cosa potrebbe succedere se la progettazione tecnica fosse influenzata non solo da una diversa presenza di genere. Quali nuove relazioni potrebbero emergere tra tecnica e socialità, tra tecnica e ambiente, tra tecnica e vulnerabilità? Che effetto avrebbe all’interno di dimensioni come il controllo e l’estrattività nella tecnica? Non si tratta di promuovere di modelli in competizione, ma di essere aperti a riscrivere i confini tra ciò che consideriamo efficienza, successo e priorità tecniche, senza dare per scontato che esista una sola via per definire questi concetti.
Accogliere e stimolare la possibilità di un nuovo vocabolario tecnico che non abbiamo ancora.
Sono solo etichette? La cosmotecnica ci dà indizi contrari
Se parlare di tecnodiversità sembra un concetto vago, il lavoro di Yuk Hui sulla cosmotecnica mi aiuta a renderlo più concreto. Hui mostra come ogni società abbia sviluppato le proprie tecnologie in modo integrato con la sua visione del mondo e il contesto culturale. Le tecnologie, quindi, non sono mai solo strumenti “neutri”, ma incarnano modelli di valore e strutture di potere di chi le progetta e utilizza.
Questa idea si collega direttamente al concetto di tecnodiversità, che non riguarda solo chi siede al tavolo della progettazione, ma quali visioni del mondo sono incorporate nelle pratiche tecniche. Parlare di tecnodiversità di genere non significa promuovere una “tecnica femminile” distinta e omogenea, ma chiedersi come diverse esperienze e prospettive possano contribuire a ridefinire i parametri della progettazione stessa.
Aggiungere più donne ai progetti di coding senza cambiare la cosmovisione che guida queste pratiche significa semplicemente espandere il numero di partecipanti, non il numero di visioni. Una “inclusione senza trasformazione”, in cui il genere – in termini di tecnodiversità – diventa solo un indicatore numerico, una vanity metric progettuale, piuttosto che un vero strumento per ampliare e diversificare i nostri approcci tecnica.
Costruire una tecnodiversità a partire dalle umaniste
Provo a spostare il filo dei miei byte dal teorico al pratico, senza perdersi nei labirinti filosofici tra Hui e Heidegger, perché, per quanto stimolanti, la mia visione è da sempre decisamente più vicina a quella pragmatica di Dewey.
Nella pratica entra in gioco la mia esperienza con il progetto di Hi-Storia. Fin dall’inizio, con il suo focus sulla valorizzazione del patrimonio culturale e sull’inclusione delle competenze umanistiche nel mondo digitale, Hi-Storia ha potuto contare su un’importante presenza femminile: una co-fondatrice donna attiva fino al 2022, il 90% di formatrici donne… Ma, per lungo tempo, la parte tecnica era separata dalle competenze delle storiche, delle archeologhe, delle archiviste e delle comunicatrici che lavoravano ai contenuti. Le umaniste si occupavano di contenuti e didattica, mentre i tecnici (spesso uomini) sviluppavano le architetture digitali. Questo modello riproduceva la tradizionale divisione dei ruoli: una tecnica maschile strutturata e durevole contrapposta a un femminile “di supporto”.
Dal 2024, invece, stiamo invertendo il paradigma: le umaniste digitali diventano protagoniste attive anche nelle fasi di sviluppo software, del design della didattica informatica, della formazione tecnica. Storiche dell’arte, archeologhe, filosofe, giornaliste, educatrici, archiviste, artiste, a condurre le attività su fabbricazione digitale e architettura software. Non si tratta semplicemente di insegnare la programmazione alle umaniste, ma di ripensare la tecnica a partire dalla visione di chi viene da una carriera umanistica.
Con Hi-Storia il tentativo è di sviluppare “pratiche ibride” dove la dimensione umanistica e quella tecnica siano linguaggi complementari in grado di arricchirsi a vicenda. Questo richiede un lavoro di traduzione dei significati: le umaniste digitali devono essere capaci di negoziare i valori culturali con le esigenze funzionali della progettazione tecnica, creando spazi di mediazione in cui il sapere umanistico possa davvero influenzare le strutture tecniche senza scontrarsi frontalmente con le logiche ingegneristiche. E senza sottomettersi alla tecnica.
In soldoni, e in linea con le azioni di una vita, una strada che vedo per dare spazio a una necessaria tecnodiversità è agire dal fruttuoso campo dell’istruzione, che come un piano inclinato porta alla pedagogia di una comunità e quindi alla cultura.
In questo senso, progetti come Hi-Storia diventano non solo applicazioni di questa visione, ma laboratori di tecnodiversità, dove le competenze umanistiche e tecniche interagiscono per sviluppare pratiche che riflettono questa pluralità.
Riconoscere il valore delle carriere femminili: non un ripiego, ma un punto di partenza privilegiato
Il racconto di Hi-Storia potrebbe far immaginare a una storia in cui donne con carriere umanistiche siano costrette a riqualificarsi in ambito tecnico per adattarsi al mercato del lavoro in evoluzione, come se si trattasse di un ripiego professionale. Ma questa visione sottovaluta il valore di competenze che potrebbero fare la differenza in settori chiave della tecnologia. Le umaniste, se inserite in percorsi di formazione mirati, possono diventare leader nella progettazione digitale, grazie alla loro capacità di integrare contesti complessi e visioni culturali nel design tecnico.
La vera sfida, quindi, è creare percorsi che le valorizzino come tecniche con un punto di partenza privilegiato. Ad esempio, un’intensa riqualificazione nel campo dell’informatica umanistica potrebbe rendere queste figure protagoniste di progetti digitali in ambito didattico, della conservazione culturale e del design di interfacce innovative. In questo modo, non si parla più solo di inserire le donne nel coding, ma di costruire una nuova professionalità che unisce la dimensione umanistica con quella tecnica. Partendo da carriere già presenti e spesso sottoutilizzate nel mercato. È qui che programmi di formazione e riqualificazione specifici, come quelli citati in precedenza, giocano un ruolo cruciale nel colmare il gap e nel fornire alle umaniste strumenti concreti per ridefinire le loro carriere come architette dei sistemi digitali.
E quindi… una tecnodiversità “pragmatica”
Parlare di tecnodiversità ha senso solo se va oltre la questione numerica e tocca le fondamenta stesse della tecnica. Se porta a porta a nuove modalità concrete di progettare e a nuove logiche di sviluppo. Intervenire nel campo dell’istruzione e della formazione continua, facendo pivot sulle carriere umanistiche anziché formare da zero tecnici, è una strada concreta per costruire le basi di una tecnica plurale.
Non si tratta di inseguire l’utopia di reinventare da zero la tecnica, ma di introdurre diversità e pluralità in modo incrementale. Tutto questo, senza cadere nel determinismo culturale. Una tecnodiversità che, partendo dal genere, vada verso un approccio intersezionale. Con i miei progetti, proverò a giocare questa campagna 🙂